Il governo francese, con un’opposizione popolare che dura da mesi e sottraendosi anche al voto dell'Assemblée nationale, ha deciso nelle scorse settimane di aumentare gradualmente l'età pensionabile. A motivare tale scelta vi sono il calo dei contribuenti e un crescente numero di pensionati e di persone in età avanzata bisognose di cure. Va detto che l’aumento del rapporto tra anziani e popolazione riguarda ormai la maggior parte dei paesi e l'allungamento della vita lavorativa è quindi diventato uno dei principali obiettivi delle politiche sociali.
Bassa fecondità e immigrazione netta in calo stanno accentuando gli squilibri nella struttura per età della popolazione rendendo più problematica la sostenibilità del welfare state. Negli ultimi anni, in quasi tutti i paesi europei le riforme hanno inciso negativamente sugli importi medi dei trattamenti pensionistici e il recupero di valori più prossimi ai livelli retributivi (i cosiddetti “tassi di sostituzione”) dipende solo dall’aumento degli anni di lavoro. In generale, le possibilità di pensionamento anticipato sono state abolite o fortemente limitate, mentre i requisiti di età per il pensionamento sono stati innalzati, con la previsione di nuovi aumenti in futuro. In diversi casi, l'età pensionabile è stata agganciata alla speranza di vita, con lo scopo di tenere invariato il rapporto tra gli anni attesi di pensionamento e la durata della vita lavorativa e non far ricadere sulle generazioni future un onere crescente per finanziare le pensioni.
Rispetto a queste linee di politica previdenziale adottate da quasi tutti i paesi, l’Italia, che aveva un’incidenza di spesa pensionistica sul PIL e un calo di natalità tra i più elevati, si è mossa in largo anticipo a partire dalla prima metà dei passati anni novanta. I contenuti delle riforme hanno infatti previsto sia un graduale aumento dei requisiti di età per accedere alla pensione, sia dispositivi legati alle aspettative di vita, tra cui diverse limitazioni all’indicizzazione delle pensioni e una radicale modifica del metodo di calcolo con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo. Queste scelte hanno influenzato in misura notevole la dinamica della spesa che, in termini reali, da un tasso annuo intorno al 4,5% prima della riforma Dini (n. 335 del 1995) è passata negli anni dopo la crisi (2015-2022) allo 0,5%, o allo 0,3% se si considera la spesa al netto della componente assistenziale.
In uno schema più compiuto di valutazione, le riforme lasciano però aperte varie problematiche che interessano l’insieme dei lavoratori ma, soprattutto il futuro dei più giovani. Una prima questione riguarda il livello delle prestazioni. Le proiezioni effettuate ai tempi della legge Dini si avvalevano di scenari macroeconomici, demografici e del mercato del lavoro molto diversi rispetto a quelli poi emersi, soprattutto in questi ultimi anni. Pochi dati descrivono le sostanziali differenze. Con l’obiettivo di preservare gli equilibri finanziari, la formula del nuovo sistema di calcolo ha preso a riferimento una crescita reale del Pil dell’1,5%, ritenuta allora prudenziale in quanto nel precedente quarto di secolo la nostra economia era cresciuta ad un tasso medio annuo di poco superiore al 2,5%. Tuttavia, a partire dal 1996 a oggi, il PIL ha proceduto con una variazione media annua dello 0,67%. Se a questo preoccupante rallentamento si aggiungono gli effetti dell’aumento delle aspettative di vita sulla formula di calcolo della pensione (i cosiddetti “coefficienti di trasformazione del montante contributivo”), si può rilevare attraverso alcune simulazioni che, dal 1996 al 2022, il rapporto tra pensione e ultimo reddito di lavoro nelle età tra i 63 e i 67 anni, con corrispondenti anzianità contributive di 38 e 42 anni, è diminuito di oltre il 35%, di cui circa il 20% attribuibile alle sei revisioni apportate ai coefficienti di trasformazione e il restante 15 % circa alla più bassa dinamica del PIL. Con tassi di sostituzione che sono scesi su valori tra il 50% e il 60%, rispetto al 75-80% che la riforma aveva fissato come obiettivo nelle proiezioni basate sul nuovo metodo di calcolo, si è perciò aperto un serio problema di adeguatezza del reddito da pensione per le retribuzioni medio-basse. Il problema è reso più grave in presenza di un’elevata quota di persone, tra cui molti giovani, coinvolte in situazioni di lavoro precario, discontinuo e a basso reddito. Se, come è compito primario di un sistema pensionistico, si vuole evitare un eccessivo aumento del rischio di povertà in età anziana, vi è quindi la necessità di prefigurare qualche forma di salvaguardia: una garanzia di “pensione minima”, presente nella maggior parte dei paesi europei ma non nell’ordinamento che regola il metodo di calcolo contributivo. Qualora fosse collegata proporzionalmente all’età e agli anni di effettiva contribuzione, tale garanzia avrebbe solo parzialmente un carattere assistenziale, da sostenere per via fiscale, mentre manterrebbe una quota di natura assicurativa e previdenziale, con la previsione di un finanziamento derivante dalle stesse contribuzioni, meglio se basato su uno schema ridistributivo che trasferisse una parte di maturazione dei montanti dalle pensioni più alte a quelle più basse.
Un secondo ordine di problemi derivante dalle linee di riforma adottate negli ultimi anni riguarda l'aumento stesso dell'età pensionabile che mette il legislatore di fronte a diversi interrogativi. Supponendo, per motivi di bilancio, di lasciare da parte le preferenze espresse dai singoli individui, nella complessità delle attuali forme lavorative, molte persone non sono comunque in grado di allungare la vita attiva oltre certe soglie di età, per ragioni che riguardano l’inidoneità fisica a svolgere certi tipi di lavoro, la salute personale, la sicurezza e, molto spesso l’impossibilità di mantenere o ritrovare una nuova occupazione in età anziana. A tale riguardo, si possono fare diverse considerazioni. In primo luogo, pur essendoci significative differenze socio-economiche nei paesi dell’Europa, dovunque si riscontra che i lavoratori con livelli di istruzione e ruoli professionali più bassi lasciano il mercato del lavoro quasi tre anni prima rispetto a quelli più qualificati. Diverse aree di politica attiva sono coinvolte. Dal lato delle attività formative, percorsi di istruzione e di apprendimento permanente risultano essere condizioni essenziali per una stabile partecipazione al mercato del lavoro e per la possibilità di prolungare la vita attiva. Inoltre, sicurezza e prevenzione dai rischi di lavoro, unitamente alla qualità dei modelli lavorativi, hanno un ruolo essenziale, dal momento che molte persone diventano invalide non solo da anziani ma nel corso della vita lavorativa, a causa di problemi fisici o mentali. Soluzioni flessibili in termini di orario e di organizzazione possono rendere più facile per i lavoratori anziani rimanere più a lungo nella forza lavoro. A tale scopo andrebbero incentivate le aziende ad acquisire modelli ibridi di suddivisione del tempo di lavoro tra casa da remoto e ufficio, in linea con le nuove abitudini acquisite durante la pandemia. Infine, come è risaputo, l'assistenza all'infanzia e agli anziani non autosufficienti sono anch'essi aspetti di rilievo nel promuovere la parità di genere e la partecipazione al mercato del lavoro.
Nell’insieme quindi, osservando le migliori esperienze di altri paesi, aree di intervento per le politiche attive non mancano, considerando anche i ritardi che il nostro paese registra in molti di questi campi. Come dimostrano i risultati ottenuti, l’efficacia di questi strumenti nel prolungare la vita attiva delle persone appare superiore a quella di norme che si propongono di innalzare rigidamente l’età di pensione.